Il sostantivo “Petrus” accompagnato dall’aggettivo “Romanus”  (Petrus Romanus) è indicato nella mitica profezia attribuita a Malachia, che ha poi spianato la strada ad una vasta letteratura fantasiosa, in alcuni casi perfino con la pretesa di riportare dati veritieri.

Innanzitutto è necessario fare chiarezza sulle origini storiche dello scritto, denominato soltanto in seguito “Profezia di Malachia”, che molto spesso viene citato senza cognizione di causa, omettendo gli adeguati riferimenti storiografici. Il documento noto come “Prophetia Sancti Malachiae Archiepiscopi de Summis Ponticifibus” è in realtà costituito da una serie di 111 motti in lingua latina, enigmatici e generici, riguardanti alcune qualità che avrebbero caratterizzato ciascun papa a capo della Chiesa Cattolica a partire da Celestino II, eletto nel 1143, sino alla fine dei tempi.

La misteriosa profezia, che si attribuisce a San Malachia di Armagh, amico di San Benedetto da Chiaravalle, fu in realtà pubblicata nel 1595 dal monaco benedettino Arnold de Wyon, in una storia della Chiesa fantastica, avveniristica ed apocalittica, intitolata “Lignum vitae”. L’elenco dei papi si concluderebbe con il motto “de gloria olivae”, coincidente, secondo gli interpreti con Benedetto XVI.

Di seguito si legge una sibillina e terribile predizione: “Durante l’ultima persecuzione della Santa Romana Chiesa, siederà Pietro il Romano, che farà pascolare le sue pecore fra molte tribolazioni. Passate queste, la città dei sette colli sarà distrutta ed il tremendo Giudice giudicherà il suo popolo. Fine.” (In persecutione S.R.E. sedebit Petrus Romanus, qui pascet oves in multis tribulationibus: quibus transactis civitas septicollis deiruetur, et iudex tremendus iudicabit populum suum. Finis) .

Per alcuni esperti, l’intenzione dell’autore non sarebbe rivolta alla fine del mondo propriamente detta, ma ad una sorta di fine della “Chiesa”, ovvero un cambiamento così radicale e, nello stesso tempo inquietante, se rapportato all’ortodossia tradizionale, che il successore di Pietro, non è più definito “papa”, con espresso riconoscimento universale, ma soltanto “Petrus Romanus”, sottolineando il particolare legame con la città eterna.

Di fatto la serie dei pontefici si interrompe a 111, proprio con Benedetto XVI, che è stato protagonista di un evento senza precedenti, con l’eccezione di Celestino V (il papa del gran rifiuto), che ebbe però una valenza più di carattere politico che dottrinario. Si può attribuire l’appellativo di “Petrus Romanus” a Giorgio Mario Bergoglio, che ha scelto il nome di Francesco, nome peraltro non presente nella tradizione papale?

E perché? Non sarebbe un papa autentico? Questa non è sicuramente la sede per discutere delle accuse mosse a papa Francesco di essere eretico, proprio da una buona parte della Chiesa Cattolica. Proviamo soltanto a scattare una fotografia “a colori” della situazione odierna. Prima di tutto vi è una curiosa coincidenza, Bergoglio, fin dalla sera della sua elezione si è ripetutamente presentato come “Vescovo di Roma”.

Questa strategia potrebbe comunque essere dettata dalla volontà di migliorare ancora di più i rapporti con la Chiesa Ortodossa Orientale, costituita da patriarcati, che non riconosce il primato petrino: quindi Francesco si presenterebbe come un “primus inter pares”.

E non bisogna affatto trascurare la sconvolgente ed assolutamente inedita coesistenza di due papi: Benedetto XVI, pur con l’affrettato aggettivo predicativo di “emerito”, rimane tuttora papa. In epoca medioevale vi era stata la compresenza di papi ed antipapi, ma sempre come antagonisti e per motivi squisitamente politici legati alla lotta per le investiture e all’ingerenza imperiale. Inoltre è sotto gli occhi di tutti come la Chiesa stia vivendo un periodo connotato davvero da numerose tribolazioni, come gli scandali economici relativi allo IOR, la banca vaticana, a partire dagli anni 70, gli scandali sessuali specialmente per la pedofilia, nonchè dal sensibile aumento delle persecuzioni ad opera soprattutto del fondamentalismo islamico.

A tutto ciò, si aggiunge l’eccessiva apertura ecumenica della Chiesa Cattolica, che riesce a stento a difendere l’ortodossia della propria dottrina, molto spesso non in condizioni di reciprocità con le altre religioni. Riguardo a Benedetto XVI, l’espressione “de gloria olivae”, potrebbe riferirsi all’olivo, simbolo dei benedettini, con riferimento alla scelta nel nome pontificale di Ratzinger.

E passando in rassegna molto sinteticamente i pontefici del ventesimo secolo, notiamo grandi coincidenze: a Benedetto XV, papa dal 1914 al 1922, si attribuisce il motto “religio depopulata” (in effetti fu il periodo del massacro della prima guerra mondiale e della rivoluzione comunista in Russia); al suo successore Pio XI, “fides intrepida” (egli si oppose al comunismo, al nazismo ed all’antisemitismo);

a Pio XII, accusato da molti di non essersi opposto al nazismo con la dovuta autorevolezza, “pastor angelicus”, espressione per la verità molto generica; a Giovanni XXIII, “pastor et nauta” (in realtà il suo pontificato fu caratterizzato da un’intensa attività pastorale, culminata nell’avvio del Concilio Vaticano II e non dimentichiamoci che era stato patriarca di Venezia, città marinara per eccellenza);

a Paolo VI, “flos florium”, e nello stemma della famiglia Montini era appunto raffigurato il giglio, considerato nella mitologia greca e nella simbologia cristiana “il fiore dei fiori”; a Giovanni Paolo I, “de medietate Lunae”, durò appena 33 giorni, poco più che un ciclo lunare, per una morte rimasta uno dei grandi misteri irrisolti; a Giovanni Paolo II, “de labore solis”, definizione piuttosto generica, che alcuni ricollegano all’intensa attività per combattere il comunismo nell’Europa dell’est, altri al legame tra il pontefice e le apparizioni di Fatima, caratterizzate appunto dal cosiddetto “sole che danza in cielo”.

E, in conclusione, vorrei accennare proprio al terzo segreto di Fatima, che la Chiesa ha ufficialmente messo in relazione con l’attentato del 1981 ad opera di Ali Agca contro Giovanni Paolo II. Ma il testo, trascritto da Lucia, l’ultima superstite delle apparizioni di Fatima, non ha convinto la maggior parte degli interpreti sul fatto che si riferisse a Giovanni Paolo II:

“Vari altri vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose salivano su una montagna ripida, in cima alla quale c’era una grande croce di tronchi grezzi, come se fosse sughero con la corteccia; il santo padre prima di arrivarvi, attraversò una grande città in rovina e, mezzo tremulo con passo vacillante, afflitto di dolore e pena, pregava per le anime dei cadaveri che incontrava sul suo cammino; giunto sulla cima del monte, prostrato in ginocchio ai piedi della grande croce, venne ucciso da un gruppo di soldati che lo trapassarono con vari colpi di arma da fuoco e con le frecce”.

Si nota che l’evento descritto da Lucia appare completamente diverso da quanto accaduto a Giovanni Paolo II, mentre sembra coincidere con “la distruzione della città” predetta da Malachia. E non trascuriamo il fatto che il Vaticano è uno degli obiettivi in assoluto più sensibili per il fondamentalismo islamico, le cui minacce di issare la bandiera islamica sulla cupola di San Pietro sono reali e ripetute. Che “Petrus Romanus” stia ad indicare il martirio già patito da Pietro (Cefa), considerato il primo papa?…Speriamo di no…

 

Luigi Angelino


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