La storia di Orfeo ed Euridice è molto lontana da quella di Abelardo ed Eloisa o da quella di Bacco e Arianna, ma, come la loro, racconta di un amore impossibile da vivere nella sua totalità degli eventi. Amore, che per ben due volte viene ucciso: soffocato dagli Dèi, la prima volta, dalla natura egoistica dell’uomo, la seconda.
Orfeo, figlio della musa Calliope, era un musicista e poeta. Grazie alla sua lira, anche le forze devastatrici della natura perdevano la loro ira. Un giorno in un giardino vide Euridice, figlia di Nereo e di Doride, una ninfa bellissima. La ragazza era intenta a raccogliere dei fiori e vide avvicinarsi Orfeo. Lui le sussurrò, “chi sei tu o soave fanciulla?”, la ninfa rispose, “Euridice”. Orfeo, colpito da quella grazia divina, se ne innamorò fin da subito e le chiese di sposarlo. Lei accettò fin dal primo respiro, ma il loro amore, per volere degli dèi, non era destinato a durare a lungo.
Il giorno delle nozze arrivò, vennero celebrate in un bosco della Tracia, ma un triste presagio, non colto dai due amanti, si verificò durante il rito nuziale: un fumo denso si levò in cielo. Di Euridice si innamorò anche Aristeo, figlio di Apollo e della principessa Cirene.
La ragazza, per sfuggire alle sue proposte, iniziò a correre disperata, fino a calpestare un serpente nascosto tra i cespugli, lo stesso che la morse, strappandola alla vita per donarla alla morte. Orfeo, attirato dal grido disperato della sua amata, si precipitò in suo soccorso, ma al suo arrivo trovò solamente un corpo senza vita. Per giorni e giorni vagò senza meta, arrivando anche a pregare per una sua morte prematura, e fu proprio in quel momento che decise di sfidare gli dèi: “scenderò nell’Averno e pregherò le potenze infernali di restituirmi la mia dolce sposa”.
Orfeo decise di scendere fino nel regno di Ade, per riabbracciare la sua amata. La sua forza lo portò fino a Caronte, che lo traghettò sull’altro lato dello Stige. Nel tragitto fu circondato da anime dannate, che cercarono in tutti modi di ghermirlo, ma, nonostante tutto, giunse fino ad Ade e Persefone, che si scagliò contro di lui, domandandogli perché si trovasse in quel luogo.
Il giovane amante si rivolse a lei con queste parole: “o dolce regina, che dal volto emani il chiarore della luna, abbi pietà del mio dolore. Il fato crudele ha strappato alla vita la mia sposa diletta. Ho cercato di placare la mia disperazione, ma invano. Abbi pietà di me. Esaudiscimi, ti prego, rendimi Euridice oppure trattieni anche me quaggiù. Preferisco morire piuttosto che vivere senza di lei”.
Il suo magnifico canto impietosì la dea, le Erinni (divinità degli inferi) iniziarono a piangere, la ruota di Issone si fermò e gli avvoltoi, che nel frattempo stavano divorando il fegato di Tizio, non ebbero il coraggio di continuare nel loro compito. Per la prima volta anche l’oltretomba conobbe il significato della parola pietà, come narra Ovidio nella sua Metamorfosi.
A questo punto della storia fu Ade a parlare: “il tuo canto, Orfeo, ha commosso la regina e me. Voglio accontentarti, Euridice tornerà con te sulla terra. Sarai tu stesso a condurla fuori dall’Averno. Ma bada, non dovrai né guardarla né toccarla, finché non avrai raggiunto la luce del sole. Se ti volterai, la perderai per sempre”.
Orfeo, pieno di felicità, si inchinò ai sovrani, per poi avviarsi verso l’uscita e, come per magia divina, dietro le sue spalle apparve una donna dal volto coperto da un velo, che, alzandosi dai piedi del trono, senza dire una parola, lo seguì silenziosamente. A lungo camminarono nel buio fitto di quei luoghi infernali, ma fin dai primi minuti Orfeo pensava a lei che stava a un passo di distanza.
Lei, così vicina, ma anche così lontana. Con lo sguardo dritto a guidarlo verso l’uscita, Orfeo combatteva con se stesso per il desiderio disperato di voltarsi a guardarla, non per curiosità, né per spirito di ribellione verso gli dèi. Infine decise di compiere l’unico gesto proibito. Il dubbio lo attanagliava, era la sua amata a seguirlo o solo il passo di un’ombra astuta?
Un attimo solamente, il tempo di girarsi, il tempo di alzare quel velo che copriva il viso di Euridice, bella come non mai, ma allo stesso tempo triste, fu un attimo, uno solo e non di più, e una fitta nebbia avvolse la giovane ragazza, per poi scomparire negli abissi profondi. La tragedia si era consumata. Il dolore di Orfeo fu immenso, supplicò ancora e ancora gli dei per riaverla, ma loro non gli concessero una seconda possibilità.
Passarono altri sette giorni, Orfeo cercò di convincere Caronte a riportarlo in quei posti bui e profondi, senza però riuscirci. Dopo aver ottenuto l’ennesimo no, decise di rifugiarsi sul monte Rodope. Lì trascorse molto tempo nella solitudine più totale, avvolto da un velo di disperazione. Durante quei giorni insegnò ai giovani del posto l’origine del mondo e degli dèi, e molte donne cercarono di conquistare il suo cuore ormai spento da ogni passione terrena.
Alcune di loro, non accettando il suo silenzio, decisero di istigare Dionisio contro di lui, progettando quindi di ucciderlo. Scagliandosi contro il ragazzo con una forza selvaggia, lo fecero a pezzi e sparsero le sue membra in vari punti della campagna circostante. La testa finì nell’Ebro e le parti rimanenti ai piedi del monte Olimpo, mentre le ninfe, colte da questo triste evento, si vestirono di nero in segno di lutto.
Le esecutrici di questa atroce morte per molto tempo rimasero impunite, dunque gli dèi infine decisero di colpire quelle terre con una forte pestilenza mortale. Dagli abitanti del posto fu convocato l’oracolo, che raccontò che per far finire quella tragedia, bisognava raccogliere i resti di Orfeo e concedergli gli onori funebri. Il capo venne trovato da un pescatore, per essere successivamente depositato nella grotta di Antissa, e la pestilenza finì di mietere vittime, ma quella passione, come una nuvola che lenta va via, portò con sé i sogni d’amore dei due innamorati.
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