“Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una Selva oscura,
chè la diritta via era smarrita.”
Credo che a tutti sia capitato di ritrovarsi in una Selva oscura; quello che conta è comprendere come fare per uscirne.
Robetta non tanto facile, giacché la vera palestra di vita si delinea proprio quando siamo all’interno della Selva oscura. Il buio opprime, l’ignoto spaventa, gli eventi, così come tutti gli elementi circostanti, ci turbano e ci sentiamo soli e abbandonati. Le radici degli alberi proliferano accanto a noi, quasi a impedire il nostro incedere, mentre il silenzio silente è un trillo prolungato di allarme che risuona in noi.
La Selva è quella parte ignota che risiede nascosta nel nostro Sé, volutamente celata dall’Inconscio, in attesa di essere accompagnata allo scoperto, in una forma di maieutica socratica. Quando lavoriamo d’introspezione, ci sentiamo più fragili, perché temiamo di venire attaccati da predoni che, come veri parassiti, inglobano tutto al loro passaggio, senza porsi il dubbio se quell’implosione equivale a una intrusione nociva. Fa parte dell’essere parassiti, parassitare senza indugio alcuno.
Nessuno immagina che un parassita bussi al portone di casa per chiedere il permesso di accedere al nostro castello; tutt’altro! Ci sono invero parassiti che bussano con le scuse più assurde e becere, quali essere un Agente di qualche Corpo di Sicurezza che ha il compito di vigilare, catturando l’attenzione e la collaborazione del malcapitato, convinto di essere in “buone mani”, ottenendone peraltro piena collaborazione. Ci sono altresì parassiti che bussano ai portoni dove risiedono poteri forti, accusando di essere stati raggirati e di aver bisogno di sostegno e cura, giusto per infilarsi dentro a protocolli di Difesa e di Giustizia, inquinando prove.
La Selva dantesca è infatti un luogo infernale, dove l’Uomo si ritrova a conoscere e a visitare tutte le forme di disagio e corruzione, dove l’aria è amorfa nonché stagnante: è il luogo dell’aere senza stelle. Tutti sanno che Dante utilizzò l’ambientazione della Divina Commedia per esporre in chiave allegorica le difficoltà della Vita, rappresentate ciascuna da un personaggio noto per mezzo delle cronache del tempo e/o da tradizioni letterarie in voga.
Il personaggio dantesco che mi ha da sempre molto incuriosito, attirando la mia simpatia, è Caronte. Siamo nel Canto terzo dell’Antinferno, dove risiedono gli Ignavi, coloro che in vita mai si decisero a prendere una decisione con tutte le dovute conseguenze, ma vissero come bandiere, la cui direzione è data dai Venti. Essi, per contrappasso, corrono nudi, inseguendo una bandiera che sventola senza significato alcuno, se non il rimarcare la loro stessa infamia.
Quanti Ignavi incontriamo lungo la via: essi tacciono e aspettano, talvolta si schierano, ma poi indietreggiano, lanciano il sasso, ma nascondono la mano, piangono e si disperano, ma poi tornano presto felici, se il vento volge a loro favore, per poi autocommiserarsi subito dopo di fronte alla possibilità di eventuali sanzioni. Costoro sono indegni perfino di risiedere nell’Inferno.
Dante li definisce coloro che mai furono vivi, poiché essi non sono carne né pesce, né tantomeno Uomini, bensì vili servitori di un padrone, che necessita di siffatti personaggi per assecondare i propri scopi. Dante li affronta con sdegno totale, dal momento che se l’Uomo è un essere sociale, chi si sottrae ai propri doveri non è degno di stima alcuna. E qui il richiamo al “rifiuto” papale di Celestino V è molto forte, giacché col suo atteggiamento rinunciatario, Celestino favorì l’ascesa al soglio pontificio di Bonifacio, che in seguito esiliò l’Autore della Divina Commedia.
Dante, accompagnato dalla sua guida Virgilio, senza il quale non riuscirebbe a superare gli ostacoli dell’Aldilà, giunge frattanto al fiume Acheronte, fiume allegorico, che funge da spartiacque fra i mondi dei vivi e quelli dei morti, così come fin dall’Antichità veniva visto il passaggio delle Anime dalla Sponda dei viventi alla residenza definitiva, che Giudizio insindacabile aveva riservato loro. Caronte rappresenta in questo contesto il traghettatore psicopompo:
“Ed ecco verso noi venir per nave un vecchio, bianco per antico pelo, gridando: Guai a voi, anime prave! […] E il duca lui: Caron, non ti crucciare: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare.”
Queste parole sono di una bellezza senza pari: si vuole così, è un ordine spirituale, per il quale si può osare ciò che vuole quel dettato spirituale, e tu ne sei servitore, come un traghettatore dall’inconscio al conscio, quindi tu, Caronte, hai un tuo preciso ruolo da svolgere, pertanto fallo, consenti la maieutica e non fare altre domande, lascia che sia!
Secondo me, tutto ciò ha un alto valore semantico di analisi del proprio percepire e dei relativi schemi mentali, nonché comportamentali. Comprendendo questo, è possibile crescere affrontando il personale baratro, la montagna rovesciata, secondo la visione dantesca, e successivamente risalirne la china per giungere a esplorare nuove forme di consapevolezza.
Un altro personaggio degno di nota che ritroviamo nella Divina Commedia è l’eroe/antieroe Ulisse. Egli viene collocato fra i consiglieri fraudolenti, per aver suggerito l’inganno con cui furono sconfitti i troiani. Grazie allo stratagemma del ligneo e gigantesco “Cavallo”, che permise a sentinelle nascoste all’interno di uscirne, per andare di soppiatto ad aprire le porte della città, gli Achei colsero del tutto impreparati i nemici, reduci dalla notte di festa cui si erano dedicati, nonostante le ammonizioni della principessa profetessa Cassandra.
Il motivo per il quale Ulisse merita, secondo la visione dantesca, l’inferno è però dovuto essenzialmente dall’aver voluto oltrepassare le Colonne d’Ercole, al di là dell’odierna Gibilterra, causando il naufragio della sua nave e la morte dei suoi uomini. Dante vede in quell’episodio l’intervento divino: il naufragio è opera del Signore, poiché Ulisse, avendo voluto affrontare le barriere poste sul mare e voluto conoscere l’ignoto, si è reso colpevole di fronte a Poseidone (che, in Dante, diventa la rappresentazione dell’intervento di Dio). Le Colonne d’Ercole erano nell’immaginario del tempo la forma inconoscibile dell’Essere e pertanto ritenute invalicabili per dettato divino, e chiunque si accingesse a volerle oltrepassare commetteva peccato grave di superbia.
Da qui si evince chiaramente la visione medioevale di chiusura nei confronti di ogni forma di gnosi che non fosse in linea con la lettura geocentrica e stereotipata della Terra, secondo cui essa era un “piatto vassoio”, oltre i bordi del quale c’era un ignoto che faceva paura. Non era pertanto nemmeno concepibile voler oltrepassare tali limiti stabiliti per legge divina, la quale veniva assunta come verità di fede. Da qui è breve il passo verso i tempi bui della Santa Inquisizione.
Dante presenta tante altre tipologie di uomini come specchio dell’Umanità coi suoi vizi, e, proseguendo il cammino fino al Paradiso, con le sue virtù. Fra esse un particolare senso di pietà-compassione mi porta a presentare la figura del Conte Ugolino. Dante lo posiziona nella seconda zona del nono cerchio, dove vengono collocati i traditori della patria, ma ciò che tocca profondamente il lettore della Divina Commedia è quella condanna a morte così terribile, per la quale venne rinchiuso nella Torre di Pisa con i suoi figli, fino a morire d’inedia.
Quella condanna fu pura agonia durata oltre una settimana. Il Conte sopravvisse ai suoi figli, fino a che la morte giunse a dargli quel sollievo auspicato. L’aver desiderato la morte (secondo alcuni egli si nutrì dei suoi stessi figli; per altri, l’orrore descritto, sarebbe la prova della morte per inedia, dovuta al lungo digiuno) per gli uomini contemporanei di Dante era essa stessa una colpa, forse ancora più grave delle vicende militari del Conte.
Secondo quella visione, l’uomo non sarebbe “libero” di decidere da sé, per se stesso. Personalmente credo che, entrando nella Selva oscura, si possa desiderare la morte come liberazione dai patimenti, tuttavia ritengo inutile lasciarsi morire fintanto che è possibile essere padroni del proprio destino. Pertanto, se “quel” particolare momento non è giunto, è meglio utilizzare il tempo rimanente per andare avanti, affinché quando veramente giunga quel momento, non ci colga impreparati.
Tornando a Ugolino, questi fu costretto alla morte per fame, ed è comprensibile come egli abbia desiderato lasciarsi morire, per affrettare, per quanto possibile, l’incontro inevitabile.
Tale vicenda dovette colpire così tanto l’immaginazione di Dante, da offrirgli in forma perpetua il “fiero pasto”, con cui in morte Ugolino si nutre del suo acerrimo nemico. A tal proposito ritengo, sì, vero che Ugolino dovette andare incontro a una morte così terribile, resa tale ancor più dalla contemporanea condanna dei suoi familiari, ma che la collocazione infernale non tenga conto della situazione e di quella morte che ha tolto loro la possibilità di una forma di riscatto spirituale.
Quanto affermo non è l’effetto del “porgere l’altra guancia”, né quello di rimanere prostrati dal dolore in forma imperitura, quanto piuttosto voler sottolineare la mancanza di nuove chance con cui Ugolino (o chi per lui), possa giocarsi altre vite, per elaborare e sublimare spiritualmente ciò che in una data esistenza ha conosciuto ed esperito.
Mi sovviene dunque un dubbio: Ugolino ha ricevuto la morte per fame e pertanto secondo la visione dantesca, è costretto, per contrappasso, a nutrirsi incessantemente. Tuttavia aveva egli il “diritto esoterico” di poter elaborare in chiave spirituale la propria morte, come monito per insegnare ad apprezzare la vita, anziché cibarsi di disprezzo costante, inchiodandolo nella Selva imperitura?
Questa mia perplessità nasce dal mio modo di sentire, di vedere e di percepire l’invisibile ponte fra i mondi. Logico pensare che, essendo Dante figlio del suo tempo, abbia creato un tale capolavoro, reso tale in virtù della necessità di esporre il suo pensiero in chiave strettamente allegorica e narrativa, secondo i dettami del Medio Evo. È altresì lecito interrogarsi per comprendere se sia possibile rivisitare la Commedia, portandola ai nostri giorni, senza alterarne la natura spirituale con cui fu scritta?
La Selva oscura è l’espressione del nostro personale vivere, di quando ci sentiamo fortemente oppressi da vicende e situazioni con personaggi che rivestono ruoli diversificati. La Selva è la notte senza stelle, è la forma più forte di paura che sorge dall’inconscio. Sta a noi prioritariamente decidere da che parte vogliamo stare e soprattutto come vogliamo porci di fronte ad essa, giacché l’ignavia è infamante: quella scelta dev’essere la forma più alta del nostro essere e del nostro sentire.
Se siamo Guerrieri, comportiamoci come tali: Osiamo Vivere, Osiamo Chiedere Giustizia, Osiamo Essere.
Oh tu, Uomo, consenti che il terremoto dei tuoi sensi non ottenebri il tuo percepire, consenti all’inconscio di affiorare, permetti a te stesso di conoscere l’ignoto, abbattendo le barriere dei tuoi stessi tremori, e procedi col tuo incedere lungo il fiume della gnosi alla ricerca di te… Sii consapevole di te stesso e assumine piena padronanza significante, cosicché tu possa dire di non esser vissuto invano.
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