La leggenda di Clizia può definirsi un monito, che ci invita a non indugiare nelle nostre ossessioni, pena l’impossibilità di sfuggire a un inesorabile destino. La ninfa, pur nel dolore che la affligge e la tormenta, continua a bramare la luce del proprio amore, che di continuo le sfugge, conscia del fatto che non riuscirà mai a raggiungerlo.
L’idea di scrivere una breve sintesi su Clizia, mi è venuta in un tardo pomeriggio di fine estate, mentre visitavo il parco della splendida Villa Durazzo, a Santa Margherita Ligure, in una posizione splendidamente panoramica sul golfo del Tigullio. La languida statua della ninfa, raffigurata con il girasole, sembrava raccontarmi la sua storia triste e disperata, ma in qualche modo sublimata nella realizzazione di uno stato poeticamente superiore.
Nella mitologia greca Clizia è una ninfa che, dopo essere stata ripudiata dal Sole, il suo amato, affranta dal dolore, cede alla disperazione. Nelle raffigurazioni Ella è rappresentata nelle vesti di una fanciulla piangente, oppure mentre si trasforma in girasole, anzi in “eliotropo”, una pianta che era diffusa e conosciuta al tempo degli antichi Greci.
La leggenda vuole che Clizia fosse una delle giovani amate dal Sole, ma Apollo si innamorò di Leucotoe, figlia del re Orcamo, e, dopo aver preso le sembianze della madre della ragazza, Egli si introdusse nella sua stanza, finendo col sedurla.
Clizia, accecata dall’ira e dalla gelosia, riferì l’accaduto al re Orcamo, padre della ragazza, che, adiratosi, diede un ordine oltremodo macabro, quello cioè di seppellire la figlia viva in una buca profonda. Ma in soccorso di Leucotoe, accorre il dio, che cosparge il luogo della sepoltura di un nettare profumato, con il risultato che da quella terra inumidita nascerà addirittura la pianta dell’incenso.
A ciò si aggiunge una bellissima e poetica immagine: Clizia, ripudiata da Apollo, trascorre i giorni a seguire con lo sguardo rivolto al percorso del carro del Sole, fino al momento che, consumata completamente dal dolore, si trasforma in girasole.
E la visione poetica non finisce così, per la mitologia greca il fiore comprende l’anima e l’essenza di Clizia, poiché sempre rivolto verso il Sole, come se anche la totale trasformazione della ragazza non fosse sufficiente per farle dimenticare l’amato.
In alcune immagini Clizia è raffigurata nel momento in cui si compie la metamorfosi, in altre immagini, invece, la fanciulla compare con il girasole sul capo o vicino. In lontananza, solitamente, gli artisti collocano la presenza del carro del Sole, irraggiungibile meta del cuore distrutto della sfortunata ninfa.
Il mito di Clizia ha ispirato autori latini importanti, come Ovidio, che, nel IV libro delle sue Metamorfosi, narra le dolorose vicissitudini di Apollo, il dio del Sole, il primo a vedere quello che accade sulla Terra.
Quando Apollo si innamorò di Leucotoe, suscitò l’invidia delle altre amanti del dio e il dolore immenso di Clizia. Ovidio, con immagini di incomparabile poesia, ci racconta che il Sole comincia a levarsi prima del dovuto, a tramontare più tardi, a protrarre le ore invernali e a sconvolgere l’intero sistema naturale delle cose, solo per avere la possibilità di contemplare Leucotoe. In una visione quasi onirica e apocalittica, il tormento di Apollo innamorato colpisce con la sua luce, ma per amore impallidisce sempre di più, fino a eclissarsi e a spaventare l’umanità sulla Terra.
La sventurata ninfa Clizia, allora, che fino a quel momento era vissuta solo in virtù dell’amore esclusivo per il dio, soffre per il tradimento, bramando solo di ricevere altri caldi abbracci da parte dell’amato, sebbene le sue speranze risultino vane.
Amareggiata dal fatto che il Sole l’aveva abbandonata, anzi aveva deciso di troncare qualsiasi contatto con lei, Clizia inizia a consumarsi, rifiutando ogni compagnia, non bevendo e non mangiando per nove giorni, nutrendosi soltanto di lacrime e di rugiada.
Riporto di seguito alcuni versi di Ovidio: “si racconta che le sue membra rimasero attaccate al suolo e che, per il sopravvenire di un pallore livido, parte del colore del suo corpo si convertì in quello dell’erba esangue. Le restò però una zona rossa, e un fiore molto simile alla rosa le coprì il viso.
Così essa, pur trattenuta dalle radici, segue ruotando il movimento del suo Sole e anche mutata serba l’amore che aveva per lui”. Risulta evidente come Ovidio non descriva nei dettagli il fiore in cui Clizia si trasformò e neanche gli attribuisca un nome specifico. Inizialmente la sua descrizione fu identificata con l’eliotropo e con la calendula, poi la tradizione successiva, in particolare quella delle arti figurative, cominciò a identificare Clizia con il girasole.
Nel 1688 il pittore francese Charles de La Fosse raffigurò Clizia su uno scoglio, in preda alla disperazione: Apollo è in procinto di tramontare in lontananza e lei lo guarda ancora innamorata e addolorata, mentre alle spalle della fanciulla già sboccia un girasole, che segna la progressiva trasformazione ormai già in atto.
Il pittore simbolista Louis Welden Hawkins, invece, rimarca anche una grande sensualità della ninfa, raffigurandola di spalle, con il corpo nudo e i lunghi capelli biondi lascivamente sciolti e adorni di rose. Dietro la donna alcuni girasoli sottolineano la sua grande ferita d’amore e la solitudine della ninfa abbandonata.
Un misto di sofferenza e di sensualità si riscontra, invece, nella Clizia rappresentata dalla pittrice inglese Evelyn de Morgan, che è immortalata nel momento della sua trasformazione, con una plastica e dolce torsione del corpo che si intreccia con la crescita dei girasoli. L’immagine è una metafora dell’ineluttabilità del destino: la ninfa non sembra opporsi al fato, ma lo accetta e si perde in esso.
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