Le predizioni fatte dal Lambda- Cold Dark Matter, il modello cosmologico teorico più condiviso dalla comunità astronomica, non collimano con le scansioni dell’Universo profondo fatte soprattutto dal James Webb, ma anche da osservazioni precedenti di telescopi come Sptizer, Alma e Hubble, che avevano già acceso i primi, timidi, dubbi.
Le galassie nell’Universo primordiale sono nate, evolute e cresciute più rapidamente di quello che le attuali teorie ammettono.
Questo il tema di uno studio pubblicato di recente su The Astrophysical Journal, al quale ha preso parte anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica, in cui si evidenzia e analizza la discrepanza , sempre più presente man mano che scrutiamo l’Universo nel profondo della sua genesi.
I dati fotometrici sono consistenti con l’esistenza di alcune galassie giganti risalenti a circa 13,2 miliardi di anni fa (redshift z≳10), ma, secondo la teoria Lambda-Cdm, nota anche come ‘Modello Standard’, strutture di quelle dimensioni non esistevano ancora in quella fase dell’evoluzione cosmica.
Secondo questo modello, infatti, le prime galassie di allora non erano affatto gigantesche, ma piuttosto piccole. Si formavano negli aloni di materia oscura, nati a loro volta da fluttuazioni primordiali della densità e anch’essi inizialmente piccoli. Poi iniziarono a crescere, fondendosi tra loro fino a diventare strutture immense. L’espansione di questi aloni corrispondeva con quella delle galassie al loro interno, che le unioni rendevano sempre più massive.
L’estensione delle galassie primordiali quindi, in accordo con la teoria standard, è anche conseguenza del processo aggregativo favorito dalla materia oscura, che però impiega tempi molto più lunghi di quelli che le osservazioni mostrano. Per la teoria Lambda-Cdm le galassie primordiali scoperte dai telescopi non dovrebbero trovarsi là, ma apparire in una fase evolutiva successiva.
Lo studio, però, fa notare che esiste una teoria cosmologica alternativa, discussa da molti anni e generalmente considerata meno valida della Lambda-Cdm, ma che in questo caso risponde benissimo alle osservazioni. Chiamata Mond (Modified Newtonian Dynamics), è nata una quarantina di anni fa, modificando la dinamica newtoniana, e fa una descrizione diversa della storia dell’Universo.
La sua caratteristica principale la rende molto attraente e interessante, perché spiega la meccanica del Cosmo senza ricorrere all’esistenza della materia oscura.
Quest’ultima, sappiamo, è una vera e propria ‘invenzione’ degli scienziati, per tentare di spiegare le differenze tra le predizioni sull’azione della gravità e le misurazioni effettive. Sebbene sia una componente fondamentale del Modello Standard, da decenni molti scienziati mettono in dubbio la sua reale esistenza.
La materia oscura costituirebbe la maggior parte della massa dell’Universo, ma è totalmente invisibile, la sua presenza non si può osservare direttamente, in alcun modo. Essendo impossibile rilevarla con qualsiasi strumento a nostra disposizione, le uniche ‘prove’ a supporto della sua esistenza sono una serie di ricadute misurabili che esercita sulla massa visibile, influendone il comportamento.
Come accennato, la teoria Mond invece offre un quadro cosmologico che non prevede l’esistenza della materia oscura. Allo stesso tempo ammette la formazione e l’espansione più rapida delle galassie, rispetto al Modello Standard. Per questa e altre ragioni, più tempo passa, più la Mond si dimostra fedele a ciò che i telescopi ci stanno rivelando mentre sondano l’Universo nelle prime fasi dopo il Big Bang.
Il sospetto che il James Webb Telescope avrebbe portato innovazioni importanti, e che potesse essere anche in grado di riscrivere le nostre conoscenze di Cosmologia, era già diffuso ancor prima del suo lancio. Che arrivasse persino a mettere in discussione il Modello Standard era invece meno previsto. Ciò che ha catturato in questi anni è per molti versi già ampiamente innovativo e sorprendente, oltre che affascinante. Vedremo se sarà anche rivoluzionario.
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