L’Elogio della follia, opera visionaria di Erasmo da Rotterdam, potrebbe sembrare un titolo tendente al paradosso, ma il discorso del filosofo implica l’intenzione di smascherare il ruolo dominante che la follia occupa nella vita degli uomini, rivelando gli inganni di cui essi si servono, anche di fronte a se stessi, per nascondere gli interessi e le passioni che sono alla base di ogni loro azione,
Erasmo da Rotterdam fu uno dei più grandi umanisti del suo tempo. Riuscì ad acquisire una profonda conoscenza della tradizione antica, riuscendone a sviluppare i contenuti per delineare in maniera compiuta il suo pensiero e le sue opere scritte.
I viaggi su quasi tutto il territorio europeo, fatto non consueto per il suo periodo, contribuirono ad arricchire il bagaglio culturale e a favorire la sua apertura mentale. A Londra strinse una proficua amicizia intellettuale con Tommaso Moro, mentre a Torino si laureò in Teologia. A Venezia strinse un legame con l’editore Aldo Manunzio, per poi trasferirsi a Parigi e a Basilea.
Nel considerare il pensiero di Erasmo, occorre valutare con attenzione la dimensione della comunicazione del suo tempo.
Egli si trovò, infatti, a scrivere durante il periodo dell’invenzione della stampa, che rappresentò una delle svolte epocali più importanti dell’inizio dell’età moderna.
A tale proposito occorre fare due considerazioni principali. La prima riguarda il fatto che si ritiene che nei circa 1000 anni di epoca medioevale furono prodotti in Occidente circa undici milioni di manoscritti, mentre la stessa quantità fu eguagliata in soli cinquant’anni, dal 1450 circa al 1500, quando la stampa fu inventata da Johannes Gutenberg a Magonza (Mainz).
In secondo luogo si osserva che l’invenzione della stampa favorì la nascita di un altro fenomeno, la cosiddetta “repubblica delle lettere”, che idealmente univa tutti gli esponenti della cultura, a prescindere dalle divisioni nazionali e dai conflitti politici e religiosi.
Erasmo da Rotterdam fu proprio uno di quelli che seppe meglio dare il suo contributo a questa “repubblica ideale”, al di là della contrapposizione tra laici e religiosi o dei contrasti tra Cattolici e Protestanti. La sua spiccata propensione umanista lo portò a mettere l’uomo-Dio (Cristo) al centro stesso dell’ideale umanistico, esaltando l’umanità al contatto con la divinità. In teologia Erasmo ammonì a non perdersi nelle sottigliezze dei dogmi, né a subire la cieca obbedienza alla Chiesa, ma a seguire la strada spirituale nella teoria e nella pratica della morale, imitando l’esempio di carità di Cristo.
In questo campo ebbe una vivace disputa con Lutero, uno dei più grandi protagonisti della storia europea del sedicesimo secolo. Erasmo scrisse il De libero arbitrio e Lutero gli rispose con l’opera De servo arbitrio. Mente Erasmo trovava nel Cristianesimo etico tradizionale i principi di libertà, responsabilità individuale e operosità morale, alla base dell’umanesimo religioso da lui predicato, Lutero insisteva più sulla fede che sulle opere, più sull’azione di Dio, piuttosto che sull’azione dell’uomo.
L’epoca storica di Erasmo fu un periodo di crisi, per il travagliato passaggio dal Medioevo all’età moderna, non percepito ovviamente con immediatezza dagli uomini del tempo, se non da un ristretta cerchia di intellettuali. In tale contesto, per Erasmo, uno dei pochi ad accorgersi dei cambiamenti, l’intellettuale doveva comprendere le ragioni, il senso e possibilmente anche il risultato di questi grandi mutamenti epocali.
Dall’antichità classica aveva ricavato le forme letterarie adeguate a esprimere i contrasti dialettici. L’eloquenza aveva determinato la forma della declamazione, che gli studenti di retorica dovevano indirizzare in utramque partem (entrambi le parti), esercitandosi, pertanto, a sostenere il pro e il contro di ogni questione. L’ironia dei Greci si era esercitata su aspetti della vita insignificanti o deplorevoli: Luciano di Samosata, in particolare, aveva trasformato il dialogo filosofico in strumento di critica, con una forma espressiva ruvida e per certi versi anche sarcastica.
L’Elogio della follia (Moriae Encomium) fu composto in soli pochi giorni nella casa dell’amico Tommaso Moro a Londra nel 1509. L’opera può essere considerata come ispirata alla tradizione retorica del paradosso irriverente, ma vuole rappresentare anche una sorta di “contro-utopia”, mirando a riportare gli ideali sull’accidentato terreno della realtà, anch’essa piena di contraddizioni e di aspetti conflittuali.
In primo luogo Erasmo pone l’attenzione sulla divergenza, che in apparenza sembra scontata, tra saggezza e follia, ma che, invece, non lo è affatto. La contrapposizione tra saggezza e follia sarebbe, perciò, soltanto un conflitto relativo, legato a circostanze contingenti e mutevoli che possono essere interpretate in un modo o nell’altro, poiché la realtà stessa si presenta come frammentaria e aperta a tante diverse chiavi di lettura.
L’Elogio della follia potrebbe sembrare un titolo tendente solo al paradosso, ma il discorso di Erasmo è a doppio senso, perché la lode alla follia vuole implicare, prima di tutto, l’intenzione di smascherare il ruolo dominante che la follia occupa nella vita degli uomini. Una spiegazione molto chiara è fornita dallo stesso autore nella lettera di dedica a Tommaso Moro: “ho scritto un divertimento che fa pensare seriamente”.
Il compito che, di solito, viene assegnato alla saggezza, con Erasmo viene svolto, invece, dalla follia che è capace di manifestarsi in maniera più onesta e genuina, rivelando gli inganni di cui gli uomini si servono, anche di fronte a se stessi, per nascondere gli interessi e le passioni che sono alla base di ogni loro azione.
Ecco che la prima forma di saggezza è proprio lasciare spazio alla follia, affinché possa svelare cosa ogni individuo sia nella realtà e non nell’apparenza. Si riprende il tema classico del mondo come teatro e della vita come commedia. In tale ottica ognuno reciterebbe una parte: strappargli la maschera significherebbe interrompere lo spettacolo.
Erasmo, attraverso lo specchio deformante, ma veritiero, della follia, riesce a delineare la società del suo tempo, facendo riferimento a improbabili alchimisti, improvvidi giocatori d’azzardo, superstiziosi bigotti e preti avidi di denaro che sfruttano il popolo.
Ed ecco che viene fuori l’immagine di ogni attore che insegue una personale pazzia, facendola apparire agli altri come frutto della ragione e della serietà. Le critiche di Erasmo sono rivolte soprattutto ai nobili senza alcuna vera e propria funzione sociale, verso i commercianti persi dietro a misere questioni di interesse e perfino ai poeti, molto spesso alla ricerca di inutili giochi di parole e non di contenuti profondi con i quali riscaldare il cuore umano.
Feroce è la critica nei confronti della Chiesa, colpevole di dilagante corruzione e di aver abbandonato completamente gli ideali evangelici di Cristo. L’opera di Erasmo ridicolizza le inutili sottigliezze in cui si era impelagata la teologia scolastica e medioevale, occupandosi di questioni senza senso, soltanto per il gusto di cavillare.
L’autore disprezza i cosiddetti “istrioni della teologia”, come lui stesso li chiama, che hanno fatto fiorire paradossi e ipotesi sconclusionate, con il solo meschino scopo di esibire ragionamenti sofistici senza alcuna effettiva utilità. Erasmo evidenzia la contraddizione tra i primi cristiani che avevano lasciato tutti i loro beni per seguire Gesù, contrariamente agli ecclesiastici del suo tempo, che trafficavano su offerte e su indulgenze, senza pensare minimamente agli insegnamenti biblici.
Per questo, molti esegeti hanno considerato l’Elogio della follia uno dei documenti più significativi del sedicesimo secolo di denuncia della corruzione della Chiesa, seppure temperato da elementi ironici e satirici.
La dialettica di Erasmo, tuttavia, non deve trarre in inganno. Egli appare anticlericale, proprio perché animato da uno spirito profondamente religioso. Le sue polemiche non nascono dal dubbio in merito alle verità del Cristianesimo, ma dagli scandali provocati dalla corruzione dell’istituzione che avrebbe dovuto, più di ogni altra, preservare e proteggere i principi evangelici.
Erasmo non risparmia critiche alla filosofia stoica, in primo luogo a Seneca, che avrebbe voluto relegare la felicità dell’uomo nella tranquillità, privandolo del suo slancio vitale e delle sue passioni. Egli riconosce il valore della follia, pur distinguendo le “follie necessarie vitali” dalle “follie inutili e dannose”, condannando le seconde ed esaltando le prime. Nel suo elogio la follia diventa quasi una divinità capace di rallegrare l’umanità con la sua “divina presenza”: preoccupazioni e dolori non potrebbero essere sopportati, se l’uomo non potesse abbandonarsi ad un briciolo di follia.
Nella seconda parte dell’opera Erasmo cambia registro, adoperando un approccio molto diverso, quasi mistico.
Da una descrizione fenomenologica della condizione umana, l’autore passa a parlare della “follia della croce”, di cui parla il vero fondatore del Cristianesimo, Paolo di Tarso, riferendosi alla “vera saggezza” che i pagani avevano respinta, non sapendola riconoscere e liquidandola appunto come “follia”. Ancora più folle appare la decisione di Cristo che, pur essendo la massima espressione della “sapienza del Padre”, si è fatto uomo per “rimediare alle follie degli uomini”.
E in questo il paradosso che vuole spiegare, Erasmo raggiunge il suo culmine, in quanto i ruoli appaiono del tutto invertiti: la follia più completa, quella di Dio che si sacrifica per salvare l’umanità, diventa il modello della più grande saggezza.
L’ultima parte dell’opera, pertanto, è più di ispirazione teologica, sottolineando come la religione cristiana abbia una certa affinità con la follia, perché i “cristiani autentici” non dovrebbero curarsi delle offese ricevute, dovrebbero perdonare i loro nemici e donare parte dei loro beni. In quest’ottica
Erasmo rifiuta la filosofia e la teologia medioevali, che considera responsabili di errori e di abusi che hanno soffocato l’autentico spirito cristiano, auspicando a un’esperienza religiosa da vivere nell’intimità della propria coscienza, scevra dei dogmi, dei culti e dei grandi apparati istituzionali dei ricchi ecclesiastici.
La follia della croce rappresenta per Erasmo da Rotterdam sia un punto di arrivo che un punto di partenza. L’acuto pensatore evidenzia come il mistico, anche di altre confessioni religiose, possa vivere la stessa situazione paradossale di Platone, riuscendo a passare dalla “caverna” dell’oscurità alla “luce” della conoscenza.
Mentre gli schiavi rinchiusi nella caverna intravedono solo le ombre della realtà, non rendendosi conto delle illusioni di cui sono prigionieri, il filosofo riuscirebbe ad accedere al “reale”, ma quando ritorna fra i suoi compagni viene scambiato per pazzo.
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