Il Bardo è la condizione intermedia dell’esistenza riguarda ciò che accade dal momento della morte alla successiva rinascita.

Dai primi albori della storia dell’uomo, la vita e la morte sono state considerate parti di un processo naturale dell’esistenza, normali eventi, l’uno richiedente l’altro. In tutte le culture antiche ci sono rituali funerari che esprimono, in termini simbolici, la concezione della morte, secondo una visione filosofica o religiosa. E i rituali sono vere e proprie tecniche culturali per attenuare la tragedia, il trauma e la crisi della morte. Talvolta rendono i morti meno minacciosi, trasformandoli in forze protettive per i vivi.

Bardo: Condizione Intermedia dell’Esistenza

Col susseguirsi delle civiltà i due termini si sono contrapposti. Oggi alla morte è associata una sensazione di profonda angoscia e di timore. La evitiamo e viviamo come se mai dovessimo morire. Freud chiama questo processo negazione. La negazione ci aiuta a superare l’ansia e a proseguire il nostro cammino evitandola, come se non facesse parte della vita.

Della morte non si parla, non si discute, il suo stesso nome viene evitato: la persona cara non c’è più, è partita per un lungo viaggio, si trova nell’aldilà. Ricordo che una volta si moriva a casa circondati dall’affetto dei familiari, amici e vicini e anche i bambini erano presenti. Io, ad esempio, ho visto morire tutti i miei nonni con naturalezza e serenità. Anche se ascoltavo di nascite avvenute tramite la cicogna.

Oggi la morte è scomparsa dalle case e spesso dagli sguardi dei congiunti. I bambini vengono iniziati in tenera età alle meraviglie dell’amore e della nascita, ma quando non vedono più il nonno, si tende ad omettere la verità.

Bardo: Condizione Intermedia dell’Esistenza

In Oriente la filosofia è differente. È tutto più semplice, normale: si nasce, si cresce, ci si ammala e si muore. Noi occidentali invece, siamo ossessionati dalla vita, sempre impegnati alla rincorsa di un’eterna giovinezza. Eppure l’appuntamento ha un orario inderogabile, a prescindere dallo status sociale o dalla ricchezza economica. La morte è lì, ci aspetta, perché la vita è nella morte e la morte è nella vita.

Esiste un posto al mondo depositario di discipline spirituali: il Tibet
Grazie all’altitudine di 4900 metri sul livello del mare, sarebbe scampato all’immane cataclisma del Diluvio Universale, potendo conservare antiche conoscenze, che invece andarono perdute per il resto dell’umanità. In Tibet si studia e si ricerca la consapevolezza in sé stessi.

Quando la Cina l’occupò, furono distrutti circa 6000 monasteri. Ne restano oggi ancora 1700. In questi monasteri sono tramandate e conservate conoscenze antichissime, provenienti da un tempo remoto. Osho diceva dei tibetani: “tutto il mondo beneficerà della loro esistenza, e avrà bisogno della loro esperienza”.

Bardo: Condizione Intermedia dell’Esistenza

In Tibet si pratica una tecnica chiamata Bardo. È un processo che inizia quando la persona è in punto di morte, nel momento in cui la coscienza viene separata dal corpo. È lo stato tra la vita passata e quella futura. La vita nel bardo è fatta di sofferenze, sia per la non accettazione della propria morte che per l’attaccamento a sé stessi, ai familiari, alle cose materiali. Il libro tibetano dei morti o Bardo Thodol, spiega in modo dettagliato le allucinazioni e le esperienze che avvengono nello stato del bardo.

Bardo Thodol fu composto dal grande maestro Padmasambhava, in un’epoca databile tra l’VIII e il IX secolo, destinato essenzialmente ai buddisti indiani e tibetani. Fu nascosto per un’era imprecisata e ritrovato solamente nel XIV secolo da Karma Lingpa. Il libro interpreta le esperienze dello stato intermedio, (bar-do, in tibetano condizione transitoria tra la morte e la rinascita) che l’anima cosciente vive dopo la morte o meglio, secondo la cultura buddista, tra la morte e la rinascita.

Gli stadi intermedi principali in cui è suddivisa la morte sono tre: il primo, immediatamente prima, il secondo, che dura fino a 14 giorni dopo e il terzo, che può durare fino a 49 giorni dopo la morte. L’opera descrive tutte le visioni post mortali, corrispondenti a profonde conoscenze dei maestri tibetani, attingendo alla ricca tradizione delle dottrine esoteriche.

L’anima perfettamente cosciente vive ancora dopo la morte, o meglio nell’intervallo di tempo che, secondo la cultura buddista, in genere intercorre dal momento della morte a quello della reincarnazione. Il Bardo Thodol viene recitato presso il corpo del defunto o del morente, per rammentare la dottrina del vuoto, dell’impermanenza e aiutare lo spirito ad evitare il ciclo di rinascita, avvicinandosi quindi allo stato del Nirvana assoluto.

Si può definire questo testo come un libro di vita, ovvero un libro sul suo significato e un’ottima guida che apre le porte alla trascendenza. La morte appare qui in una luce completamente diversa, anzi completamente illuminata. Il pensiero della morte è costantemente presente nei tibetani, ma questo pensiero non è triste, morboso e angosciante: è piuttosto normale, sereno, è un invito a utilizzare ogni momento dell’esistenza per realizzare la trasformazione interiore e non sprecare un solo istante della vita.

Il buddismo ci insegna ad abbandonare il radicamento con la materia, l’attaccamento, il desiderio, il potere perché tutto è transitorio e impermanente. La morte quindi non può che essere vista come un bene necessario, perché con essa si può sperare di uscire dalla catena delle esperienze terrene, che sono oggetto di limitazioni. Recitare questo testo porta l’individuo fuori da questa vita e verso la liberazione dal ciclo delle rinascite.

La maniera in cui la viviamo determina come ce la caveremo nel bardo. Tutto è nelle nostre mani. In questo momento, abbiamo l’opportunità, la libertà, la possibilità di imparare. Se lo facciamo ora, sapremo cosa fare quando moriremo. Ma se non usiamo la nostra vita adesso, dopo non sapremo come gestire il sopraggiungere della morte, perché sarà troppo tardi.

Articolo di Tina Camardelli.


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