Simbologia teologica, iniziatica ed ermetica della scala di Giacobbe narrata nella Genesi.
Uno dei passi più difficilmente decifrabili della Bibbia e che ha dato adito a molteplici interpretazioni, è quello che si riferisce alla cosiddetta “scala di Giacobbe”, considerato importante non solo per i significati teologici di immediata evidenza, ma soprattutto per la simbologia esoterica ed ermetica. La scena è narrata nel libro della Genesi e si svolge in una sorta di santuario, quando al grande patriarca Giacobbe verrà attribuito il “secondo nome” che rimodulerà l’intera storia del popolo ebraico, Israel.
Giacobbe, in un certo senso, anticipa la storia successiva del suo popolo, fuggendo dalla sua terra, in apparenza perché perseguitato dalle grida di suo fratello ingannato. Si dirige, quindi, verso i territori lontani di Paddan-Aran, dove vivrà lunghi anni di esilio, mente vede sempre più difficile la speranza di sposare la donna amata, Rachele. All’inizio deve accontentarsi di un’altra donna, subendo l’oppressione del parente Làbano, ma poi riuscirà a ritornare nella sua terra e a realizzare i suoi progetti esistenziali.
Per quanto riguarda la scena della visione della “scala”, l’interpretazione tradizionale è quella della “scala del paradiso”, cioè il ponte che collega l’uomo a Dio, anche se l’immagine è forse molto più complessa, così come emerge dai dati testuali. Secondo gli esegeti bisogna riferirsi ad un tipo di “ziqqurat”, tipicamente babilonese, i famosi templi a gradoni dove si saliva verso il vertice, dove era presente la statua della divinità che si imponeva per la sua magnificenza.
Verso la statua potevano salire soltanto alcuni privilegiati: i sacerdoti ed una speciale categoria di fedeli a cui era concesso l’incontro con il dio. Il sogno di Giacobbe, pertanto, deve essere letto in chiave squisitamente orientale, come una cammino che descrive l’ascesa dell’uomo verso Dio, arricchito dall’immagine della comparsa degli angeli, che sono appunto messaggeri ed espressione dello spirito divino.
A questo punto è giusto ricordare che sia in lingua ebraica (mal’ak), che in lingua greca (anghelos), il termine ha il significato di “messaggero”, “ambasciatore”, di colui che è, comunque, destinato a diffondere una “notizia”. Nella visione orientale Dio deve rimanere lontano nel Cielo, altrimenti in qualche modo corre il rischio di essere “imprigionato” e, per questo, si manifesta attraverso altri spiriti. In tale contesto l’angelo consegna a Giacobbe quanto c’è di più prezioso al mondo, cioè la stessa “parola di Dio”.
Per la particolarità della visione, implicante la comunione tra l’uomo e Dio, il sogno della scala di Giacobbe entrò molto presto nella letteratura mistica. In particolare, menziono l’abate Giovanni, responsabile della comunità del monastero di Santa Caterina del Sinai durante il VII secolo che scrisse un libro, diventato successivamente, un best-seller nell’ambito della tradizione ortodossa orientale, “La scala del paradiso”.
Il testo descrive “un viaggio dell’anima”, un vero e proprio “itinerarium mentis in Deum”: l’anima parte dalla pianura, piena di ostacoli e priva di grandi orizzonti, per poi salire sempre di più verso un vertice spirituale, un luogo di mistica contemplazione. Non a caso, l’autore sarà denominato Giovanni Climaco (da klimakes, in greco “gradini”), per sottolineare il significato di ascesa della sua opera.
In epoca più recente (si fa per dire), all’inizio del Cinquecento, troviamo un altro grande mistico ed iniziato, Giovanni della Croce che scrisse un’opera mirabile per la spiritualità di ogni religione, “Salita al monte Carmelo”.
Adoperando altri espedienti letterari, maggiormente influenzati dalla rivoluzione “umanista”, Giovanni della Croce delinea un grande viaggio interiore sulla “scala” dello spirito, verso la meta suprema, l’unica speranza che consente all’uomo di sopportare i grandi sacrifici dell’esistenza, così come Giacobbe fu capace di resistere alle insidie e alle blandizie dei lunghi anni di esilio.
In linea generale, per gli asceti cristiani, l’anabasi sulla scala rappresentava la strada della “imitatio Christi” e dell’apprendimento della “lectio divina” presente nella Sacra Scrittura, mentre i singoli “pioli” della scala non erano altro che gli esercizi spirituali da superare in maniera graduale, analogamente alle tecniche iniziatiche di risveglio dei chakra della tradizione orientale, in grado di aprire la “via del cancello della mente”.
Non bisogna dimenticare che anche la liturgia ebraica comprendeva un rituale simbolico di una scala che poteva condurre alla sommità dell’albero delle sefiroth. Inoltre, nel Corano è narrato un episodio abbastanza simile, dove Maometto, durante l’ascensione notturna assistita dall’arcangelo Gabriele, osserva una scala utilizzata dagli spiriti degli uomini per salire verso il cielo.
Il sogno della “scala”, tuttavia, risulterebbe incompleto e non potrebbe essere compreso senza l’ultima grande scena della vicenda, quella della “lotta” che, a giusta ragione, ha influenzato anche l’arte pittorica e scultorea. Il patriarca è ormai sulla via del ritorno, giunto alla frontiera segnata dal fiume Giordano, dovendo superare l’ostacolo di varcare l’affluente orientale, chiamato “Jabbok”.
A lui si presenta un essere misterioso che non si identifica come “angelo” e nemmeno come “Dio”, che lo sottopone ad una grande prova. La scena implica un’importante simbologia iniziatica. Prima di tutto il guado del fiume non deve essere considerato come un quadro bucolico e pittoresco di stampo occidentale, ma il torrente impetuoso in una zona generalmente arida sottolinea la difficoltà della prova per le tribù nomadi orientali, che avevano scarsa familiarità con i corsi d’acqua.
La scena, inoltre, si svolge nell’oscurità ed in assenza di luce. Giacobbe perde tutti i suoi punti fermi, quando la misteriosa figura lo assale nelle tenebre.
Il patriarca non si dà per vinto e, comprendendo la grandezza della figura che ha davanti, cerca di riceverne la benedizione e di conoscerne il nome che, per i semiti, aveva il significato di conoscere l’essenza della persona stessa.
Dio, allora, riconosce il valore e la grandezza del patriarca, rimarcando però il mistero del suo nome, in buona sostanza il divario incolmabile tra la su infinita onnipotenza e la debolezza creaturale umana. Il confronto con Dio lascia un segno indelebile in Giacobbe, egli sarà colpito al femore, una delle parti più delicate del fisico, segno delle difficoltà del cammino di purificazione. Infatti, colui che si accinge a compiere un percorso iniziatico non può rimanere lo stesso individuo di prima, dovendo portare i segni dell’avvenuto cambiamento.
Nel memoriale di quest’importante episodio biblico, gli Ebrei introdussero il divieto di mangiare il nervo sciatico posto sopra l’articolazione del femore degli animali: la lotta di Giacobbe faceva sorgere un nuovo giorno, perché dopo la sua grande agonia, fu chiamato come fondatore di un popolo.
Molto significativa è la riflessione di un teologo americano, H. Cox, che riporto di seguito testualmente: “Il nome, cioè la realtà del nuovo popolo che nasce dal grembo di quel fiume, in quella notte, del nuovo popolo di Israele, non è costituito più, come in passato con Abramo e Isacco, in base alla fedeltà -tu sarai mio popolo se sarai fedele alle leggi dell’alleanza”- è costituito invece in base alla ragione della lotta”. Ne possiamo dedurre una riflessione più profonda sui concetti di “fede” e di “preghiera”, non come ripetizione statica di formule pronunciate meccanicamente, bensì come confronto, a volte anche vivace, con la divinità.
In precedenza abbiamo accennato alle interpretazioni esoteriche ed ermetiche attribuite alla “scala di Giacobbe”. In ogni percorso iniziatico, i cosiddetti “gradini” o “gradi”, per ascendere verso l’elevazione spirituale, assumono una rilevante importanza.
Nella cultura occidentale, con alcune differenze rispetto a quella orientale, la scala ha sempre rappresentato il mezzo di unione tra terra e cielo, così come tra spirito e materia. Ricordiamo qualche illustre precedente letterario, come racconta lo stesso Dante, nel XXI canto del Paradiso, mentre si trova con Beatrice nel settimo ed ultimo cielo (Saturno), intravedendo una scala dorata che si innalza verso il Cielo, sulla quale alcune anime salgono ed altre scendono;
oppure il prezioso riferimento di Fulcanelli nel suo capolavoro, “Le Mystere des Cathedrales”, dove sottolinea come l’alchimia sia allegoricamente raffigurata all’entrata della chiesa di Notre-Dame a Parigi, attraverso una figura seduta su un trono, recante nella mano destra due libri e nella sinistra uno scettro, mentre dai piedi sale una scala a pioli fino al petto, terminando sotto la gola.
Il numero “sette” ha un significato preciso fin dalle civiltà antiche: dai Caldei ai Pitagorici, dai Veda alla Bibbia, dalle popolazioni norrene a quelle mesoamericane Si può affermare che la scala è un simbolo antropologico settenario, dove si tende a rappresentare il dinamismo e di conseguenza anche la vita stessa dell’uomo che è sempre mutevole, sia in senso evolutivo che involutivo (ascesa e discesa).
Ciascuno dei sette gradini corrisponderebbe ad un particolare stadio del “sentirsi uomo”, in uno schema esemplificativo che, traendo spunto dalle scienze sociali e psicologiche, potrebbe riassumersi nei seguenti passaggi: 1) materia corporea; 2) corpo vivente; 3) affettività; 4) intelligenza; 5) libertà; 6) autocoscienza; 7) supercoscienza.
Ognuno dei passaggi indicati comprenderebbe due momenti imprescindibili, l’uno di carattere introspettivo verso sé stessi e l’altro di natura collettiva, rivolto alle persone che ci circondano. L’antropologia settenaria, in alcuni casi anche ennearia (legge del nove), era ben radicata nella sapienza antica che, continuando a considerare la “legge del sette”, suddivideva i precitati passaggi in tre gruppi: corpo (soma), anima (psuxè) e spirito (pneuma).
Al primo gruppo appartenevano i primi due gradini (materia corporea e corpo vivente); al secondo i tre intermedi (affettività, intelligenza e libertà); al terzo i tre più elevati (libertà, autocoscienza e supercoscienza). E’ significativo notare che il “gradino” della libertà era considerato compreso sia nel gruppo dell’anima che dello spirito.
Alla scala che indica un percorso di evoluzione, si può opporre una scala rovesciata che, al contrario, rievoca tutti gli aspetti psicologici connessi alle esperienze negative, come il degrado della materia, le azioni di odio e di lesionismo nei confronti degli altri e di noi stessi. Ciascuno di noi, nel corso della propria esistenza, ha dovuto fare i conti con percorsi evolutivi, a cui purtroppo sono seguiti periodi di involuzione spirituale.
La scala antropologica è fondamentale per comprendere la gradualità delle conquiste, attraverso un percorso tracciato e basato su una tradizione consolidata. Non si possono esprimere sentimenti di affettività, se non si ha prima un buon rapporto con il proprio corpo, così come il raggiungimento dell’autocoscienza e della supercoscienza devono implicare scelte che si fondino sull’intelligenza e sulla libertà.
Oltre alle numerose rappresentazioni del sogno e della lotta di Giacobbe, un grande significato simbolico assume il tema della “Madonna della scala”, uno strano modello iconografico adoperato in particolar modo da Michelangelo, come l’esemplare custodito presso Casa Buonarroti, oppure nei dipinti di Andrea del Sarto e del Correggio.
Già a Costantinopoli, Maria era chiamata la “scala celeste”, mediante la quale l’Altissimo scendeva sulla Terra per portare la redenzione all’umanità. La Madonna, invocata come nuova Eva e genitrice di Cristo, ha la capacità di scendere negli abissi e di innalzarsi al di sopra degli angeli. A differenza delle raffigurazioni “settenarie”, la scala della scultura di Michelangelo riporta soltanto cinque gradini, ispirata secondo alcuni studiosi al mistico sogno di Giacobbe, ma nel contempo influenzata da motivi neoplatonici, riscoperti e diffusi nel Rinascimento italiano, a partire dalla Firenze dei Medici.
Una delle più suggestive immagini della scala di Giacobbe è data dall’acquerello di William Blake, il discusso artista che visse a cavallo tra l’Illuminismo ed il Romanticismo. Nella sua interpretazione, riproposta come immagine di copertina del presente articolo, si nota come la scala del sogno del patriarca venga concepita sia come mezzo per salire verso il cielo, sia come strumento per consentire agli angeli di portare le comunicazioni di Dio fra gli uomini.
Si tratta di un’immagine “psichedelica” che vuole tracciare il percorso che congiunge lo spirito alla materia, un vero e proprio messaggio ermetico che unisce “ciò che sta sotto” con “ciò che sta sopra”.
Nei variegati e numerosi rituali nei quali la scala è utilizzata come simbolo di elevazione spirituale, essa può essere rappresentata come tale, oppure con una figura stilizzata ed espressa con intagli di albero. o ancora da immagini che evocano gli scalini di un tempio, come le piramidi, le ziggurat babilonesi o i teocalli mesoamericani. In alcuni contesti specifici, la scala di accesso verso il Cielo o diretta verso la purificazione interiore è raffigurata con l’immagine dell’arcobaleno, icona molto cara a tutte le antiche civiltà, in quanto considerata espressione della benevolenza delle divinità verso gli uomini meritevoli.
E’ giusto precisare, in conclusione di trattazione, che in ogni tipologia di immagine figurativa, la “scala”, così come è derivata dalla visione onirica del patriarca biblico Giacobbe, deve rievocare con chiarezza le caratteristiche di un mezzo di unione voluto e creato direttamente da Dio: ecco perché la sua forma esteriore deve essere rappresentata in un genere di materiale associabile al divino, o quanto meno di origine naturale, ma non come opera prodotta dall’ingegno dell’uomo.
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